La comunicazione efficace tra l'allenatore e la squadra: ostacoli e strategie correttive per favorire uno scambio costruttivo - Prima parte
La comunicazione tra allenatore e gruppo-squadra non è un processo spontaneo ma richiede da parte del tecnico un approccio adeguato ed una applicazione continuativa nel tempo tale da farne una consuetudine per la squadra. |
- Lo stile di leadership dell’allenatore: Se un allenatore adotta uno stile rigido (pragmatico), dirigista, poco incline al ragionare sul come e sul cosa, privilegiando essenzialmente il fare in campo e niente di più, difficilmente potrà avere uno scambio comunicativo con i giocatori anche nel caso lo richiedesse esplicitamente. Non per un atteggiamento passivo-ostruzionistico da parte di questi ultimi ma semplicemente perché risulterebbe essere una pratica estranea in una “cultura di gruppo” impron-tata molto sul fare e poco o niente sul dire.
- Il rapporto asimmetrico giocatori-allenatore: Per definizione, e ciò vale per qualsiasi disciplina sportiva, il rapporto tra allenatore e giocatori si fonda su differenze di ruolo e di status. Al tecnico spettano i compiti di guida, decisione, selezione, insegnamento e ciò comporta di riflesso che egli sia chiamato implicitamente a gestire alcuni “poteri”:
- potere di leadership (l’Allenatore guida il Gioca-tore segue);
- potere d’esempio (il G. si identifica con A.);
- potere dì competenza ( il G. considera A. competente);
- potere di giudizio (A. valuta il G.).
Ai giocatori invece viene sostanzialmente richiesto di accettare e condividere gli orientamenti del mister per favorire la coesione e la cooperazione al fine di raggiungere gli obbiettivi prefissati. Queste complesse dinamiche insite nella relazione asimmetrica tra allenatore e giocatori sono ineludibili e non favoriscono di per sé lo scambio comunicativo fluido e spontaneo tra le parti che quindi va appositamente costruito.
- La difficoltà a parlare in gruppo: per qualsiasi persona esprimere i propri punti di vista di fronte ad una platea, grande o piccola che sia, costituisce sempre un impegno che chiama in causa varie dimensioni del proprio essere: l’autostima, l’emotività, le conoscenze, il linguaggio ecc. In ambito sportivo questo vale sia per l’allenatore che per gli atleti. Il primo però ha davanti un solo destinatario della sua comunicazione: il gruppo; il giocatore invece ne ha due: l’allenatore e il resto dei suoi compagni. In altre parole i giocatori debbono vincere una doppia apprensione: quella derivata dall’esporsi davanti all’allenatore e quella di fronte al resto della squadra. In presenza di queste difficoltà spesso i ragazzi si chiudono in un prudente silenzio onde evitare brutte figure o ancor peggio essere mal interpretati o giudicati criticamente dagli altri.
- La paura di essere disapprovati o derisi: sono due aspetti questi assolutamente centrali nell’indurre i giocatori, specie se giovani, a evitare di aprirsi confrontarsi col mister. Il timore infatti di dire qualcosa fuori posto o che non coincida con la visione del tecnico e che questi possa di conseguenza risentirsene o magari giudicare negativamente il giocatore (con i potenziali rischi, veri o immaginari, che ne potrebbero conseguire) è un forte deterrente per chiunque in una squadra. Dire il proprio pensiero con il pericolo di venire derisi dal tecnico e/o dal resto del gruppo dei compagni di squadra è una preoccupazione troppo forte che pochi si sentono di affrontare.
- Una relativa arretratezza dell’ambiente calcistico: spesso si sente dire dentro e fuori i rettangoli di gioco con un tono di rimprovero: “…ragazzi poche chiacchiere e pedalare” oppure “...facile parlare ma poi sul campo…” o ancora all’indirizzo ora dell’uno ora dell’altro giocatore “…tante belle parole ma poi poca sostanza.”. Queste e altre espressioni spesso pronunciate da allenatori e anche da dirigenti, testimoniano il persistere ancora di una certa incultura rispetto al valore della comunicazione, del confronto, della responsabilizzazione dei calciatori fin da piccoli, aspetti questi considerati un sovrappiù, se non addirittura nocivi, non capendo che in questo modo non si favorisce la crescita del “giocatore pensante” che il calcio moderno sembra sempre più richiedere.
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